Sommario
Hai mai pensato a qual è la prima lettura che dai al pianto di tuo figlio?
Quando un genitore assiste alle lacrime del suo bambino di due, sette o dieci anni, tra le prime reazioni che può avere, vi è quella di farlo smettere. Il pianto è associato alla sofferenza, al malessere e nessun genitore desidera che il figlio viva questa esperienza. Comprensibile, no?
Eppure, quando interveniamo sempre e in modo tempestivo sul pianto di un bambino o di un ragazzo, produciamo un effetto educativo inconsapevole: incoraggiamo a riempire il dolore, trattenerlo, anziché liberarlo. La mamma che distrae dal pianto, il papà che fa il possibile per porvi rimedio e cancellarlo, ha una premura ricca di buone intenzioni, che alla lunga, però, incoraggia il figlio a nascondere i propri sentimenti e ad allontanarsi da sé stesso. Un’altra, diffusa interpretazione del pianto infantile, è quella che lo identifica come una fonte di seccatura, un fastidio. “Che lamento… Che lagna… Che cantilena!”.
Cos’hanno in comune i genitori turbati all’idea della sofferenza del figlio e quelli che, all’opposto, si innervosiscono per le lacrime? Entrambi perdono l’opportunità di trasformare il pianto del figlio in un’occasione utile.
Oggi, per questo, ti propongo una prospettiva nuova, che interpreta il pianto di tuo figlio come un potente mezzo di comunicazione da utilizzare per la sua crescita.
A cosa ti serve il pianto del tuo bambino?
Come abbiamo visto insieme, la gestione del pianto di tuo figlio è innanzitutto una questione legata al tuo livello di accoglienza e disponibilità interiore. Un eccesso di sensibilità, inteso sia come coinvolgimento emotivo troppo intenso, che come intolleranza, ti preclude di consentire al pianto di diventare:
- Una liberazione;
- Una possibilità di comprensione di sé;
- Un allenamento all’auto-consolazione.
Perciò, da oggi smetti di impegnarti a cancellare il pianto del tuo bambino, prova a comprendere cosa puoi farne di buono per lui.